Page 86 - Le Riflesione su San Giuseppe
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O crederemo alla grandezza della nostra missione/storia, oppure saremo dei mediocri e
avremo tradito il nostro battesimo; o crederemo all’importanza di certi dolori, eventi storici
catastrofici pur con tutto il carico di dolore e sofferenza che comportano, come possibilità, luogo in
cui incontrare Dio in maniera strepitosa; oppure tutto ci apparirà così ineluttabile da sentirci schiavi
e schiacciati dall’inganno del male. “Il progresso umano, che pure è un grande bene dell’uomo, porta
con sé una grande tentazione: infatti: sconvolto l’ordine dei valori e mescolando il male con il bene,
gli individui e i gruppi guardano solamente alle cose proprie, non a quelle degli altri; e così il mondo
cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l’aumento della potenza umana
minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano” (Gaudium et Spes n. 37). Giuseppe di
Nazareth è l’uomo sapiente capace di accogliere la situazione, il problema, le continue sfide, che gli
si propineranno innanzi come opera di Dio in lui. L’arte di comprendere positivamente a lasciarsi
trasformare dai problemi nella continua ricerca della speranza. È la maestria profonda di chi impara
ad amare in maniera genuina e disinteressata raggiungendo livelli e consapevolezze profonde e belle
del proprio cuore. Abitare la scuola di Giuseppe è credere alla grandezza dell’opera di Dio,
all’opera dello Spirito Santo, dando a Dio il permesso di operare. In tal senso diventa singolare per
noi l’esperienza di Giuseppe nell’accogliere Maria e Gesù. Il corpo di Gesù è plasmato nel corpo di
Maria, ma è cibato dal pane di Giuseppe. Questa è la grande dignità delle nostre opere: che attraverso
esse venga fuori l’agire di Dio. Qui si gioca la fede. La fede ha a che fare con l’accoglienza, questo è
il primo vero dato da riconoscere come nostro. Accogliere, assecondare l’opera di Dio.
Seguirlo, farsi secondi a lui. Assecondare Dio significa permettere che la sua opera lavori in noi;
sorprendendoci così con grazie che mai avremmo pensato. Chiamati a vivere, nella consapevolezza
che c’è sempre un’opera di Dio da assecondare. Prendere, custodire, nutrire, quell’opera. Le nostre
tribolazioni sono le occasioni in cui mostrarci figli.
Dire si a Dio è una grazia da chiedere incessantemente. È durissimo, ma possibile. È proprio
quando smettiamo di opporci, di rifiutare le cose, le persone, le situazioni, che viviamo di eternità, di
cielo. Dire si all’amore di Dio è permettere che l’eternità si spalanchi dentro noi.
In definitiva cosa hanno in comune Gesù, Giuseppe e Maria? Questo ci offre lo statuto della
grandezza del Regno di Dio. Maria: nell’accogliere l’annuncio dell’angelo. Giuseppe: in tutta la sua
operatività di sposo e padre. Gesù: nel Getsemani, come Figlio si abbandona alla volontà del Padre.
“Avvenga di me secondo la tua Parola” (Lc 1.38), “Fece come l’angelo gli aveva ordinato” (Mt 1,
24) e “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 46). Espressioni che dicono la stessa cosa: la
fiducia in Dio. Da questo parte l’avventura che porterà alla redenzione. Nel Getsemani è manifestata
la grandezza del nostro combattimento mostrando alla nostra umanità la capacità di fidarci di Dio.
Ritornare a vivere nella consapevolezza di essere figli di Dio chiamati a fidarsi è la più grande
delle sfide consegnate al cuore dell’uomo. E certamente, questa pandemia ne ha offerto la possibilità.
In definitiva come uomini di fede, cristiani, consapevoli della nostra figliolanza divina in virtù del
battesimo riconosciamo come vi sia sempre una Volontà in cui entrare.
Al di là di ogni ragionevole discorso, riflessione, considerazione, lettura sociologica,
economica, culturale… Il cristiano è colui, che chiamato a fermentare la storia, si riconosce in una
storia di salvezza fatta di inaspettate opportunità; mai pesate sulla bilancia del mi sta bene o meno;
soffro di più o soffro di meno. Un cammino, alla stregua dell’imprevedibile e dell’inaspettato, che
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