Page 47 - Le Riflesione su San Giuseppe
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Sappiamo che un superiore ha, sì, la grazia di stato, ma questo non lo rende un angelo, non lo esime
                 di  essere  uomo  soggetto  ai  suoi  difetti  e  a  ogni  pulsione  di  ambizione,  di  fare  carriera,  di
                 protagonismo, di avere denaro, di adulare personaggi altolocati e via dicendo. Del resto, anche la

                 Chiesa, spronata dallo scoppio di scandali come il “caso Maciel” sembra aver ripensato la sua un
                 tempo consolidata prassi di dare sempre ragione al superiore, lo dica pure un fatto di cronaca del
                 nostro passato più recente! Così come i membri di una comunità sono, sì, mossi dal desiderio di
                 servire  Dio  con  più  autenticità,  eppure  si  vedono  ostacolati  dall’egoismo,  dalla  superbia,
                 dall’individualismo,  dall’indifferenza  nei  confronti  degli  altri,  ecc.  Oggi,  senza  fideismo
                 inconseguente, siamo chiamati ad assumere la Vita Religiosa con responsabilità personale.

                 E come si svolge il rapporto di noi uomini del XXI secolo con Dio? Anche qui direi che siamo nella
                 fase adolescente: abbiamo superato la stagione della paura dell’inferno, che ci teneva buoni. L’appello
                 dei predicatori alla giustizia di Dio con le relative minacce dei suoi implacabili castighi, già non giova
                 se non a produrre futuri sensi di colpa, che tuttavia non limitano le occasioni di peccato nel presente.
                 Come ragazzi che stanno per diventare adulti, non vogliamo peccare, ma esperimentare le cose buone
                 della vita, spingendoci fino alle frontiere massime fra la nostra libertà e ciò che è proibito.

                 In campo sessuale, per esempio, ciò che la Chiesa di un tempo ha cercato di regolare con dovizia di
                 particolari, oggi ci sembra una sfera da considerarsi di gestione prettamente personale. In compenso,
                 siamo molto più sensibili al dolore dell’altro, al rispetto, alla sofferenza di determinato ceto, alla
                 discriminazione  di  ogni  tipo,  al  razzismo,  alla  tolleranza,  alle  differenze,  all’ecologia  …  La
                 consapevolezza che abbiamo dei nostri diritti ci impediscono di accettare passivamente qualsiasi
                 maltrattamento, violenza psicologica e umiliazione (parti integranti di certa pedagogia di un tempo),
                 prepotenza e sfruttamento da parte di chiunque sia. E soprattutto diamo valore alla persona per ciò
                 che essa è: non importa se ha soldi, se è vescovo o cardinale, se ha lettere di raccomandazione, se
                 rappresenta qualche gran personaggio, se ha degli incarichi politici ecc. ecco perché tante ingiustizie
                 dentro  delle  nostre  comunità,  dapprima  considerate  insignificanti,  oggi  sono  mal  sopportate  e
                 divengono fonte di insoddisfazione e di abbandono della Vita Religiosa.

                 Ci rendiamo conto che in questo anno di san Giuseppe, in vista di un futuro ricupero del nostro spirito
                 di famiglia abbiamo tanto da fare. Il primo passo, a mio avviso è investire tempo ed energia non nella
                 ripresa dello stampo antico (come vorrebbero taluni), ma nel mettere in motto quei meccanismi di
                 partecipazione (ormai non tanto nuovi!) previsti già nelle nostre Regole.

                 (Per non dilungare eccessivamente questo che vuole essere un semplice articolo, senza altra pretesa
                 che di suscitare una riflessione e magari un dibattito comunitario), tocco leggermente, solo a titolo di
                 esempio, il caso dei nostri Consigli di Comunità. Non è vero che in tanti posti (non per cattiveria di
                 alcuno,  piuttosto  per  imperizia)  esso  è  diventato  una  mera  riunione  programmatica,  dove  la
                 condivisione delle opinioni e la partecipazione alle decisioni sono considerate perdita di tempo? Non
                 è vero che molte decisioni che affettano la vita dei singoli membri vengono prese ancora da sopra,
                 senza il minimo riguardo per le necessità individuali? Non è vero che, se per caso il superiore lascia
                 la parola libera, spesso trova il silenzio, perché non si è abituati a quella procedura che, passati oltre
                 50 anni dal Concilio, ancora ci è rimasta strana? Eh sì, ne abbiamo di strada da percorrere verso una
                 vita  di  vera  fraternità,  dove  i  membri  di  una  comunità  si  vogliano  bene,  abbiano  il  rispetto,
                 l’accettazione e la cura gli uni degli altri, e siano capaci di correzione fraterna. E i superiori esercitino
                 più  l’autorità e meno il potere. Questo  io  chiamerei  un cammino che  si promette lungo,  lento e
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