Page 46 - Le Riflesione su San Giuseppe
P. 46

la carità). Sui doveri verso i compagni, diceva il Manuale di Pietà per i Carissimi:“Evita il fare
                 superbo, gli scherzi mordaci, i nomignoli, le parole pungenti, i dispetti, le mormorazioni. Devi pure
                 evitare ogni contesa, ogni discussione esagerata, ogni forma di alterco …” Si capisce allora la nota
                 frase di san Giovanni Berchmans, patrono dei nostri novizi: “la vita comune è per me la penitenza
                 più ardua”. Il peso dell’ordine gerarchico, che conferiva ai superiori l’autorità di un abate nei campi
                 dell’obbedienza,  veniva  contemperato  dal  cosiddetto  spirito  di  famiglia,  tema  che  a  suo  tempo
                 meriterà una riflessione a parte. Per ora baste ricordare la missione dei superiori di allora come il vero
                 esercizio di una paternità che tanto più era autentica, quanto più si estendeva ai minimi particolari
                 della vita dei religiosi loro affidati. E, a loro vece, i religiosi erano tanto più perfetti quanto più
                 docilmente  si  lasciavano  guidare  in  tutto  e  per  tutto  dalla  volontà  dei  superiori,  giacché  essa
                 rappresentava la volontà di Dio in ogni circostanza. Era inculcata l’oboedientia ac cadaver, dovuta
                 al superiore che diceva comandare auctoritas qua fungor. Le decisioni venivano sempre da sopra,
                 senza la partecipazione della base. Su questo, è illustrativa la frase di p. Cortona sulla obbedienza:
                 “niente chiedere, niente rifiutare”.

                 Poi c’erano anche le relazioni fra i membri nelle comunità, regolate come abbiamo detto dal galateo,
                 e non raro davano origine a vere amicizie, sotto una forte impronta spirituale, schivando le vituperate
                 amicizie particolari, considerate un devio pericoloso. Possiamo dire che, via di regola, i membri di
                 una comunità si volevano bene e, per gli inevitabili problemi di gelosia, invidia, fastidio, ecc. si faceva
                 ricorso al superiore.
                 In rapporto alla nostra vita odierna, dobbiamo riconoscere che la vita comunitaria di un tempo era
                 tutto più semplice, di una semplicità che abbiamo perduta senza saper sostituirla con qualcosa di
                 simile. Ma non ci è concesso di essere ingenui al punto di rinchiuderci in un passatismo inamovibile.
                 Pensare la festa dei Santi Sposi nell’anno dedicato a san Giuseppe ci obbliga a fare i conti con la
                 nostra  vita comunitaria nell’attuale  contesto  e sociale  ed  ecclesiale. Non possiamo  pretendere di
                 continuare a vivere come se non incidesse sulla nostra vita, molto più di quanto poteva incidere sulle
                 generazioni  passate,  l’influenza  di  personaggi  come:  Marx,  Freud,  Nietzsche,  Foucault  …,  e
                 avvenimenti come il Concilio Vaticano II con le varie reazioni scatenate, e le denuncie nei nostri
                 tempi di abusi di potere ecc.

                 Da un tempo in qua è cambiato non solo il contesto in cui viviamo, ma è cambiata la stessa nostra
                 concezione di Dio e le forme di relazionarsi con lui. Un tempo l’obbedienza significava sottomissione
                 incondizionata  alle  mediazioni  fra  gli  uomini  e  Dio:  la Chiesa,  i  superiori,  autorità  varie  ecc.  Il
                 modello era, per così dire, quello dell’obbedienza del bambino, ancorata su una malintesa infanzia
                 spirituale. Oggi siamo chiamati più che mai a un’obbedienza intelligente e fattiva, che si traduce in
                 responsabile partecipazione. Siamo umili per riconoscere che ci troviamo ancora lontani. Per stare
                 all’immagine adottata, non siamo più bambini, perché abbiamo perso l’innocenza: i difetti riscontrati
                 nelle persone e nelle istituzioni non ci permettono più di accettare acriticamente le mediazioni di una

                 volta, ma d’altra parte non siamo diventati ancora adulti capaci di gestire i nostri rapporti con maturità
                 e di assumere le conseguenze di tutte le nostre scelte. Cosa siamo allora? Direi che siamo adolescenti:
                 non più bambini, non ancora adulti. Quando ci decidiamo a “restare nel Tempio”, vogliamo, è certo,
                 ascoltare le parole di tenerezza di una madre amorevole, ma vogliamo anche essere ascoltati nelle
                 nostre ragioni da un padre silenzioso.



                                                                                                         44
   41   42   43   44   45   46   47   48   49   50   51